23
Set
07

Chi sono

    Mario Sordi, laureato  con lode  in Storia dell’arte presso l’Università di Roma La Sapienza, prosegue gli studi e la collaborazione con la cattedra di Storia dell’arte moderna comparata dei Paesi europei presso il medesimo ateneo. Dal 2001 é una guida turistica abilitata di Roma e provincia ed oltre alla Storia dell’arte nutre forti interessi nei campi della musica, della botanica, dei viaggi e delle religioni.  Questo Blog ha lo scopo di divulgare materiali di ricerca, informare su eventi a carattere storico-artistico, valorizzare argomenti che possono servire come spunto per più approfondite indagini, condividere ricerche, scoperte e passioni in campo artistico.                                                  

                                                                   Grazie e buona lettura                   

                                                                            Mario Sordi

23
Set
07

Mithra: un Sole nascente nel tramonto dell’Antichità; BUON COMPLEANNO MR. BEYELER!

Mithra: un Sole nascente nel tramonto dell’Antichità

Il Mitreo delle Sette Sfere ad Ostia Antica. 

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 Segni occulti di una civiltà passata, figure con fiaccole, mosaici monocromi con stelle e spade  sono le enigmatiche tracce di un segreto culto antico, di un percorso iniziatico compiuto da uomini ostiensi in un remoto passato.Ben nascosto tra gli edifici, all’interno di un’esigua aula avvolta dalla penombra, uno dei più importanti templi dedicati al dio Mithra è ancora visibile, vincendo secoli di distruzioni, a pochi passi dal tracciato dell’antico decumano. L’arcaica divinità indoiranica, che deriva il proprio nome dal vedico “mitra”, ovvero “amico”, “compagno”, giunse a permeare la spiritualità del mondo romano dopo essere sopravvissuta allo zoroastrismo, a Babilonia e allo sgretolarsi del potere persiano, resistendo in Asia Minore nella forma del culto misterico.

Peculiarità assolute del culto di Mithra furono quelle di essere un credo monoteista e solare, ispirato all’ascensione, al perfezionamento e all’appartenenza ad un gruppo che ben custodiva i precetti e il cerimoniale della loro religione segreta. Addirittura diversi imperatori abbracciarono il culto mitriaco e la venerazione del dio era di tipo misterico a causa del percorso tutto personale, intimo e di tipo iniziatici che l’adepto doveva intraprendere e, quindi, non certo a causa del timore di eventuali persecuzioni. Già radicato a Roma durante il II secolo, la grande diffusione di tale culto nell’abitato dell’antica Ostia è documentato da ben diciotto mitrei rinvenuti durante le campagne di scavo e testimonianti l’irrefrenabile ascesa di quei modi orientali, di spiccata spiritualità ed intimità, che presto sostiturono le ormai inadeguate e ieratiche divinità olimpiche.

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Mitreo delle Terme, Ostia                   Mitreo di Marino                      Mitreo di San Clemente, Roma

Scoperto dal Petrini nel 1802 e ancora oggetto di indagini da parte del Lanciani nel 1886,  il lavoro dei primi archeologi portò alla luce quattro iscrizioni che oltre a testimoniare con assoluta certezza la funzione dell’ambiente ci restituiscono il fascino di antiche personalità legate alle cerimonie di questo culto misterioso. Un restauro del vestibolo compiuto da parte di un certo Decimius Decimianus, l’erezione di un altare dedicato a Mithras Sol Invicto voluto da Tullius Agatho e la memoria di un sacerdote di nome Aemilius Epaphroditus, sono alcune delle informazioni emerse dalle epigrafi trovate. L’aula, stretta e profonda come impone la tipica forma del mitreo, ospitava trentadue adepti che prendevano posto lungo le panche in muratura a destra e a sinistra del piccolo corridoio centrale. A terra sette semicerchi in mosaico scandiscono lo spazio legandosi, nel modo e nel significato, alle figure eseguite con tessere brune e disposte lungo le sedute. Nei sette pianeti: Saturno, Sole, Luna, Giove, Marte, Venere e Mercurio, i sacerdoti di quel dio orientale vedevano i sette gradi di iniziazione dell’adepto che, attraversando così le sette sfere di perfezionamento, ascendeva dal livello di Corax, ovvero di  corvo, fino a quello di Pater, ovvero di padre, passando attraverso i livelli intermedi di Nymphus: sposo novello, di Miles: soldato, di Leo: leone, di Perses : persiano e di Heliodromus, ovvero di messaggero del Sole.  

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  Al centro della parete di fondo si trovava la rappresentazione del dio nella sua più tipica iconografia: un giovane imberbe, con chioma riccia e berretto frigio, vestito con una tunica di foggia orientale, dotato di mantello, nell’atto di uccidere un toro. Dal sangue fuoriuscito dal taglio nella gola dell’animale verrà alla luce il cosmo intero e Mithra trionferà, appunto, come divinità celeste. Spesso il mantello del dio è punteggiato di stelle o di quei pianeti che infatti ritroviamo rappresentati attraverso le personificazioni in mosaico presenti nel mitreo. Ad ogni pianeta raffigurato nella parete verticale dei sedili corrispondono, nell’ermetico ciclo musivo ostiense,  quei segni zodiacali indicanti le case notturne. Tale precisa figurazione sembra avvalorare l’ipotesi che la particolare disposizione di segni e pianeti potrebbe riferirsi a quell’ideale quadro astrale relativo alla notte della creazione, ovvero a quelle tenebre squarciate per sempre dalla nascita della luce dell’astro più ardente, il Sole, ovvero Mithra. Tale lettura del ciclo sembra ulteriormente trovare positivi riscontri nella mancanza del Sole tra le personificazioni astrali in mosaico lungo le panche, quindi nell’associazione della luce con la figura del dio rappresentata nel fondo della sala.        

   Rivolte verso l’ingresso, sulla fronte dei sedili, le due figure di Cautes e Cautopates accoglievano gli adepti. Rappresentati rispettivamente con la face verso l’alto e il gallo e con la face rivolta verso il basso, i due personaggi, sempre presenti nell’iconografia mitriaca, alludono al duplice aspetto del cielo, diurno e notturno e la daga in mosaico rinvenuta sulla controfacciata allude, molto probabilmente, all’arma sacra del dio utilizzata per il sacrificio del toro.  

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Mitreo di Sutri                                       Mitreo di Santa Prisca                  Mitreo del Circo Massimo

 A sottolineare l’unicità del mitreo ostiense sembra inoltre che la disposizione della decorazione sia orientata secondo due assi, uno est-ovest ed uno nord-sud, indicanti nella disposizione dei segni zodiacali una linea nord-sud in rapporto con gli equinozi e un ulteriore linea di solstizi, est-ovest, passante tra il segno dei gemelli e quello del cancro. Infine le due piccole nicchie, aperte in basso a metà del corridoio, rappresenterebbero le porte del cielo, quindi quei passaggi attraverso i quali le anime degli uomini ascendevano e discendevano.Divinità celeste, luminosa, unica e che imponeva il battesimo ai suoi fedeli, anche se a base di sangue, la figura del dio Mithra è all’origine di molti elementi entrati a far parte della più tipica tradizione cristiana. Nato il 25 dicembre di notte in una grotta, venerato in una zona chiamata “vaticanum”, tutelato da un sacerdote detto “pater”, avente per simboli il gallo e le chiavi, l’uso del battesimo e l’importanza del sangue nel culto, sono solo alcuni degli elementi di forte contatto tra la figura di Mithra, mondo misterico tardo antico e Cristianesimo delle origini.        

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                 BUON COMPLEANNO MR. BEYELER!

L’altra collezione del mercante d’arte dalla doppia anima alle soglie degli 87 anni.

Quando il mercato dell’arte si pone come obbiettivi primari il raggiungimento di una qualità assoluta nella scelta dei pezzi ed è in grado di sviluppare realtà decentrate e parzialmente depresse rispetto ai grandi centri di vendita, allora tale fenomeno economico si muta in vero momento culturale di alto livello e in grado di resistere nel tempo.
Nell’arco di sessant’anni Ernst Beyeler, uomo raffinato e di grande intuito, è riuscito, grazie al suo amore per l’arte e al duplice aspetto della sua anima, a trasformare un piccolo centro svizzero in una delle più dinamiche e prestigiose capitali del mercato e del collezionismo d’arte europei.   
Rilevando nel 1945 una libreria d’antiquariato a Basilea, che trasformerà presto in galleria d’arte, Beyeler iniziò quella carriera lunga e sempre in ascesa che qualificherà la sua perizia di mercante. Oltre 250 esposizioni, un ristretto interesse tematico esteso alle avanguardie storiche, soprattutto all’astrattismo e agli artisti americani e l’impegno profuso, tra il 1971 e il 1992, nella co-fondazione ed organizzazione della fiera d’arte internazionale Art Basel, sono solo alcuni degli ambiziosi  traguardi raggiunti da un gallerista diventato ormai leggendario.

          

A funzionare da vincente alchimia fu, nella vita di Beyeler, il personale atteggiamento professionale e spirituale che dimostrò nelle sue scelte il mercante stesso. Seguito e amorevolmente consigliato nell’attività dalla moglie Hildy, di fronte a molti capolavori giunti in galleria Ernst non si pose con la mentalità speculatrice del puro mercante, ma con lo spirito di un vero collezionista passando, senza soluzione di continuità, dalla parte del cliente. Un’anima duplice, un’identità divisa tra tornaconto economico e amore viscerale per l’arte, per quel collezionismo di più alta qualità, fu il motore che permetterà al grande gallerista di essere ricordato nella storia come il creatore di una delle raccolte d’arte più pestigiose al mondo e come colui che ha trasformato Basilea da modesto centro periferico in capitale artistica di respiro internazionale.
Rompendo totalmente gli schemi convenzionali dell’atteggiamento del tipico mercante d’arte, Beyeler afferma che i quadri migliori, talvolta, “è meglio tenerseli anziché venderli.” Episodio emblematico nella vita di Ernst  rimane la visita del barone Thyssen e consorte alla galleria da poco arricchitasi di uno dei capolavori di Monet. Alla vista del trittico Nymphéas i baroni rimasero talmente colpiti da voler acquistare ad ogni costo l’opera, ma le loro richieste e le loro iperboliche offerte caddero inesorabilmente nel vuoto. 

   

Entrarono così a far parte della collezione privata dei coniugi opere di altissimo pregio e veri capolavori del XIX e XX secolo. Prediligendo soprattutto il tardo e il post-impressionismo e le avanguardie storiche, il gusto del mercante-collezionista sottrasse alla vendita nomi altisonanti quali Van Gogh, Monet, Picasso, Braque, Matisse, Mondrian, Kandinsky, Mirò, Klee e ancora gli espressionisti americani come Rothko e Newman. I dipinti di questi grandi maestri oggi costituiscono il cuore pulsante e permanete della Beyeler Foundation, centro espositivo e culturale in divenire attraverso una sistematica attività espositiva e continue acquisizioni.
Se oggi la galleria Beyeler compie ben sessant’anni di attività, alle porte di Basilea si festeggiano i dieci anni di vita della Beyeler Foundation, importantissima collezione e centro espositivo e di ricerca allestiti nell’edificio progettato appositamente da Renzo Piano.  
Tra i cristalli, i telai metallici e le fughe sul verde paesaggio volute dall’architetto genovese, trova il suoi spazio ideale la mostra L’altra collezione, omaggio a Hildy e Erns Beyeler.
              
Oltre alle 80 opere provenienti dalla collezione del gallerista, l’esposizione presenta la riuscita dell’ambizioso  progetto, frutto della stretta collaborazione tra Beyeler e il curatore Oliver Wick, di recuperare alcuni dei capolavori venduti in oltre mezzo secolo di attività dalla galleria Beyeler. Il difficile lavoro di recupero, condotto su inventari di oltre cinquanta anni d’età e tra una mole di oltre 16mila pezzi venduti, è riuscito a sottrarre al silenzio delle collezioni private, anche se solo momentaneamente, ben 140 capolavori. Tra i recuperi più significativi spiccano la “serie” Femmes, cinque opere di Picasso del 1907 e i ritratti di Cézanne.  
Tutte le opere scelte dal mercante durante il corso della sua lunga vita sono legate da un fil rouge che le stringe in un gruppo di capolavori quasi tutti eseguiti nella fase tarda della produzione dei maestri alle quali appartengono. Si tratta, generalmente, di dipinti e sculture di grande potenza espressiva e mai espressione di una bellezza classica, canonica, reputata dal famoso mercante stucchevole e nel tempo annoiante. La grande passione per l’astrattismo, che intravede già in fase larvale nell’amatissima opera di Cézanne e Picasso, conduce Beyeler in una approfondita e avanguardistica ricerca che lo condurrà fino in America. Esperto ed astuto, vero pioniere europeo nelle novità artistica e nel mercato dell’arte statunitensi, fu in grado di prevedere, prima di molti, l’ascesa dell’arte americana e la consequeziale caduta del primato delle avanguardie storiche europee.

     

(Articolo in fase di realizzazione)

22
Set
07

MarioSordi’s Art&Culture Weblog

MarioSordi’s Art&Culture Weblog

Oltre a leggere il blog, contattami per consulenze storico-artistiche, lezioni di Storia dell’arte, quotazioni di opere d’arte, (dipinti, sculture, oggetti d’arredo), visite-lezioni guidate idividuali o di gruppo a carattere storico-artisitico e per ogni tua eventuale curiosità nel campo dell’arte.

                                                 Mario Sordi

19
Set
07

IL PAPA, L’AMANTE E UN DIPINTO Pinturicchio e il Bambin Gesù delle mani

IL PAPA, L’AMANTE E UN DIPINTO 

Pinturicchio e il Bambin Gesù delle mani 

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“Ritrasse, sopra la porta d’una camera, la signora Giulia Farnese nel volto d’una Nostra Donna; e nel medesimo quadro la testa di esso papa Alessandro che l’adora”. Con queste parole Giorgio Vasari ricorda, nelle Vite, l’esistenza di un dipinto eseguito in Vaticano dal pittore Bernardino di Betto detto Pinturicchio. Nonostante l’atteggiamento poco favorevole dimostrato nei confronti dei pittori non toscani, il Vasari indugia nella biografia del maestro umbro fornendo una descrizione alquanto precisa di un dipinto murale mai individuato dagli storici dell’arte e reputato tanto famoso e scandaloso quanto ormai leggendario a causa di una latitanza durata circa cinque secoli.   

Dopo tanto silenzio oggi il mistero è stato finalmente svelato, il dipinto esiste e il Vasari aveva ragione ricevendo, così, la riabilitazione dei contenuti, comunque spesso errati ed imprecisi, delle sue famose Vite. Ad individuarlo, nel novembre 2004 sul mercato antiquario sottoforma di lacerto di pittura muraria, fu un antiquario in collaborazione con Franco Ivan Nucciarelli, professore di iconologia presso l’Università di Perugia, che convinse all’acquisto del preziosissimo frammento il gruppo industriale perugino Margaritelli.

Scongiurato l’errore vasariano, che per molti studiosi consisteva nell’aver riportato solo una delle tante leggende che aleggiavano attorno alla figura del papato Borgia, il Nucciarelli nota come il famoso cronista toscano fosse stato preceduto da altre due fonti indicanti il dipinto. Nel suo Diario della Città di Roma Stefano Infessura precisa che il dipinto si trovava nel cubicolo, ovvero in quel breve corridoio che precedeva la camera da letto del pontefice e ad informarci ancora dell’esistenza della pittura in questione sarà, in una lettera del 1536, il Rabelais dopo aver trascorso il suo soggiorno romano.

Anche se ampiamente mutilato, il dipinto si mostra al pubblico dopo cinque secoli in tutta la sua umbra dolcezza e nell’intatta perfezione formale tipica di quel caposcuola preferito da Papa Borgia. Nel 1492 Alessandro VI commissionava proprio al Pinturicchio la decorazione delle stanze dell’appartamento privato in Vaticano. L’artista, aiutato dalla cerchia dei suoi collaboratori, dipinse soffitti e pareti esprimendo un gusto raffinatissimo ed intriso di cultura classica, pieno riflesso del dilagante gusto per quell’antichità recuperata, riproposta e spesso reinterpretata da papi e sovrani a scopi celebrativi.

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Il ciclo pittorico, terminato nel 1495, si mostrava, quindi, come l’espressione più alta della cultura e dell’ ambizione di un uomo che, prima del contegno imposto dal ruolo di pontefice, incarnava, in virtù e debolezze, la figura del principe, dominante e luminoso dittatore in quel periodo aureo chiamato Rinascimento.

Tra ori, sangue, affreschi, intrighi e nepotismo si consumò quel secondo papato borgiano che caratterizzò, per la prima volta in modo incisivo e definitivo, la figura e la condotta del principe-pontefice rinascimentale in termini di volitività, spregiudicatezza e magnificenza.

Alla luce delle qualità del pontificato Borgia, il frammento del Pintruricchio si impone nella Storia dell’arte come il più tipico prodotto di tale ambiente politico-culturale sia da un punto di vista estetico che di contenuto.   

Della composizione citata dal Vasari, che prevedeva il pontefice inginocchiato di fronte alla Vergine che teneva in grembo il Bambino, è giunta fino ai nostri giorni solamente la figura del piccolo Gesù e a causa delle molte mani presenti nel lacerto pittorico, (quelle della Vergine, una mano del pontefice oltre alle manine del bimbo), è stato arbitrariamente ribattezzato Bambin Gesù delle mani.

Lo spiccato accento mondano che caratterizzava la corte Borgia  era ben noto agli uomini del tempo e la passioni carnali del pontefice non erano certo un mistero. Il Vasari infatti indica, con totale libertà e disinteresse per la censura, che la mano del Pinturicchio traspose nel volto della Vergine Maria i tratti somatici della bella Giulia Farnese, forse la donna più attraente del Rinascimento. Tentando la scalata sociale e politica i Farnese non esitarono a giocarono anche la carta della seduzione e presto la giovane Giulia divenne la favorita del sessantaduenne pontefice.

Letta alla luce di tale identificazione, la composizione originaria si presentava, dunque, come una sorta di inno all’amore contemplativo, ma allo stesso tempo terreno e tutto carnale toccando l’apice in quel volto di Madonna troppo simile alla donna amata, a quella dea soggiogatrice dell’uomo che riesce a far piegar le ginocchia anche ad un principe-pontefice.

L’ambizione borgiana, irrefrenabile in ambito politico, si rivelò tale anche in campo artistico se, oltre all’ardito ritratto della Vergine-Giulia, Alesando VI volle, nel medesimo dipinto, rompere quelle barriere iconografiche tradizionali creando un contatto diretto con il corpo stesso di Gesù, sottraendo quell’esclusiva di un gesto raro estesa, sino ad allora, ad una ristrettissima cerchia di santi e figure bibliche quali: Santa Caterina, la Madonna e il più anziano dei Magi. La mano del papa che si spinge sino ad accarezzare il piedino dell’infante Gesù indica la caduta di ogni barriera e di ogni scala gerarchica discostante il divino dall’umano, rappresentando quell’ardito contatto e forse quell’immedesimazione cercati con e in Dio stesso rasentando la blasfemia.

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Sopraggiunta nel 1503, la morte di Alessandro VI oltre che a rappresentare la rovina di ogni progetto borgiano, decretò anche l’occultamento e la successiva distruzione del dipinto tanto discusso. Coperto da una pesante stoffa fissata alla parete con dei chiodi e a sua volta da una canonica Madonna del Popolo, il capolavoro del Pinturicchio venne così occultato per oltre un secolo fino a quando, il primo pontefice successivo al Borgia ad avere il coraggio di assumere nuovamente il nome di Alessandro VII, ne ordinò, probabilmente,  la distruzione tra il 1665 e il 1667. A giustificazione di tutto ciò non è possibile ignorare le illuminanti scoperte di Giovanni Incisa della Rocchetta, figlio della principessa Eleonora Chigi Albani della Rovere.

Dalle ricerche risulta che l’Incisa era riuscito a rinvenire documenti attestati la presenza di due frammenti pittorici raffiguranti rispettivamente un Gesù Bambino e il volto della Vergine, entranbi conservati, dal 1693,  presso la collezione del cardinale Flavio Chigi. Dagli studi si evince ancora che lo stesso pontefice Chigi aveva condotto degli studi su quell’iscrizione particolare dipinta sul manto della Madonna in quei frammenti all’epoca attribuiti al Perugino. Alla luce di tali scoperte è prudente affermare che la probabile distruzione del dipinto incriminato sia da far coincidere con il pontificato e con la volontà di Alessandro VII.  

L’incontro casuale con una pittura su tela  conservata all’interno di un  palazzo patrizio di  Mantova

condusse l’Incisa a rintracciare, nel 1940, il soggetto integrale del dipinto del Pinturicchio eseguito per il Borgia. Catalogata come opera di Francesco Francia di provenienza ignota, la tela risultava appartenere, sin dal 1693 alle collezioni familiari.  

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Dopo attenti studi lo studioso ginse alla corretta attribuzione della  tela riconsegnandola alla mano del mantovano Pietro Facchetti, abile copista alle dipendenze di Francesco IV Gonzaga duca di Mantova. Il particolare tipo di collezionismo amato dal duca, quello dei dipinti rari e singolari, conduce il Facchetti sin nel cuore degli appartamenti vaticani, proprio in quella sala in cui, da più di un secolo, quella pittura scomoda e blasfema era stata celata, ma mai dimenticata.

Oltre alla curiosità e al capriccio collezionistico, il duca manifestò apertamente l’interesse di voler ottenere copia del dipinto per divulgare le connivenze tra il casato Farnese e quello Borgia e i modi illeciti e sacrileghi attraverso i quali il pontefice Paolo III e la sua famiglia erano riusciti ad ascendere al sommo potere.

Nonostante celata ed inaccessibile, la scena scandalosa riuscì lo stesso ad essere copiata dal Facchetti proprio in quel momento in cui, nel 1612, fonti vaticane indicano la scena “dipinta sopra il cubicolo dove dorme il cardinal nipote Scipione Borghese”. Grazie alle pressioni operate da Francesco IV su Monsignor Aurelio Recordati, legato a Roma del duca di Mantova, il prelato riuscì ad ottenere il via libera al dipinto ricorrendo all’illecita, ma inevitabile via della corruzione convincendo un guardarobiere in cambio di un paio di calze di seta.

In seguito alle voci attorno alla copia voluta dal duca di Mantova e il ricordo infausto di quell’indegno pontefice che portò il suo stesso nome, Alessandro VII si persuase alla necessità della distruzione del dipinto salvandone comunque alcuni frammenti. Che la figura di Alessandro VI inginocchiato si andata per sempre perduta non c’è da meravigliarsi, ma risulta incoerente la presenza del volto della Vergine tra i frammenti salvati e conservati nella collezione Chigi.    

Ad indicare l’appartenenza del frammento ritrovato col Bambino Gesù a quell’eccezionale ciclo pittorico che ricopre le volte delle sale dell’appartamento Borgia, sono la particolarissima tecnica impiegata e il tipo di supporto ancora visibile nella sua originalità. Il taglio del frammento a massello, con uno spessore di sei centimetri e mezzo e lo strato pittorico dunque ancora adeso all’intonaco originario e a parte dell’arriccio, indica una pittura su muro non eseguita con tecnica ad affresco.

Dal recente intervento di restauro condotto all’interno della Sala dei Misteri è emerso il particolarissimo modo d’esecuzione dei dipinti utilizzato dal Pinturicchio e dalla sua bottega. Una tecnica elaborata appositamente per le esigenze del Borgia che imponeva al maestro rapidità e sfarzo. Trattando l’esecuzione dei dipinti su superficie muraria come una sorta di pittura su tavola, il Pinturicchio riuscì mirabilmente ad ampliare la gamma dei pigmenti cromatici e a velocizzare i tempi d’esecuzione. Tale particolare tecnica torna, con le medesime caratteristiche, nel frammento del Bambin Gesù delle mani affermando così uno strettissimo rapporto tra tecniche e supporti oltre a quelli, già stringenti, tra tra  stile, iconografia e fonti  letterarie e documenti.

Ciò che ormai si credeva perduto o addirittura mai esistito torna oggi a parlare di sè uscendo dal cono oscuro del passato, brillando ancora nei suoi freschi ori, sottraendosi fieramente, dopo lunga battaglia, a quel continuum di cadute culminanti nel trionfo del Tempo che il Petrarca ben rappresenta indicando l’oblio al quale sono destinati i cicli delle esistenze, delle aspirazioni, degli eventi.

                                                                                                                        Mario Sordi

06
Set
07

“FUEGO DE MI VIDA”

“FUEGO DE MI VIDA”

Colore e dolore nell’arte di Frida Kalho

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Senza la testarda volontà di Salma Hayek, bella e appassionante attrice messicana, non sarebbe stata possibile la realizzazione di una delle pellicole cinematografiche du genere biografico più affascinanti almeno degli ultimi dieci anni. Una fotografia caratterizzata da colori intensi, scene cariche di passione e sguardi vibranti, sono elevati dalla straordinaria poesia delle opere autentiche della Kalho al suono gitano di Chavela Vargas, leggendaria voce del Messico, che nonostante i suoi quasi novant’anni, soffre in scena interpretando dal vivo la passione de La Llorona. Tutto questo ha saputo amalgamare nel film la regista Juylie Taymor, caratterizzando la pellicola anche con eccezionali passaggi degni del più puro surrealismo che esaltano i soggetti, già roventi, delle opere della Kalho animandoli nuovamente nel cuore dell’artista e nel nostro in un eterno, ardente paradiso doloroso.
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Frida, così il titolo del film,  si afferma dunque sul panorama cinematografico internazionale come proposta di ricostruzione storica e surreale, esotica e dolorosa, poetica e totalmente contemporanea e come il sogno di Salma Hayek, concretizzato dopo circa quindici anni di idee e tentativi.
In un giorno dei suoi felici diciotto anni, Frida salì su uno dei tanti tram che tagliavano le affollate strade di Città del Messico; la vettura sbandò, i freni andarono fuori uso, il tram si schiantò in retromarcia, un corrimano penetrò il giovane corpo di Frida dalla schiena al pube straziandolo in modo irreparabile. Dolori intensi, interventi chirurgici, lunghe degenze, aborti e amputazioni seguiranno l’incidente senza mai abbandonare la vita di Frida e riflettendosi in modo ossessivo nelle tele dell’artista.

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Un dolore, forse più profondo di quello provocatole dalla sua precaria condizione fisica, fu quello inferto al cuore di Frida dalla burrascosa relazione col pittore Diego Rivera, suo “scopritore” che la esortò a proseguire la carriera artistica, la introdusse negli ambienti socialisti e “rossi” dell’epoca e la tradì innumerevoli volte con modelle e addirittura con la sorella di lei, Cristina.
L’ennesimo tradimento, il peggiore, quello col suo stesso sangue, scoperto da Frida stessa all’interno della casa-atelier, portò la focosa pittrice ad interrompere la relazione, ottenendo il divorzio nel 1939, dopo ben dieci anni di matrimonio. Appena un anno dopo, nel 1940, un amore ardente e in realtà mai esauritosi portò Frida, ancora una volta,  tra le braccia del suo adorato “panzòn”.
Nuovamente sposata, come donna messicana, inserita in una società ancora di tipo tradizionale, Frida fu un soggetto anomalo e ribelle. Un’indole libera e passionale condusse la pittrice a furibonde ribellioni che sfoceranno in scelte non convenzionali quali il divorzio, l’adesione al socialismo più estremo, i diversi rapporti extraconiugali ed omosessuali con i quali ripagò le profonde ferite inferte da Diego al suo potente amore.
Non bella, sposata e con un corpo martoriato da ben trentacinque interventi chirurgici, Frida riuscì comunque ad essere una delle più ardenti amanti del secolo. Tra le sue braccia si alternarono indistintamente uomini e donne, di fronte al suo irresistibile fascino caddero artisti e intellettuali, ballerine e politici come la celebre fotografa Tina Modotti, la cantante Chavela Vargas e l’esule Trotzkj che, fuggito dall’Unione Sovietica nel 1939 a causa delle persecuzioni staliniste, trovò rifugio in Messico dove fu accolto e nascosto con l’aiuto in prima persona di Diego e Frida.
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Tradizionale e indomabile, femmina e androgina, vitale e sofferente, Frida dipinse se stessa innumerevoli volte, creando così una vastissima galleria costituita quasi interamente da autoritratti.
Grazie al soggiorno negli U.S.A., nel quale la pittrice seguì suo marito invitato ad esporre a New York, Frida si accostò per la prima volta ad un mondo lontano ed opposto a quella realtà messicana fatta di cieli azzurri, rapporti genuini e profondi, spazi deserti, musica ed agavi dalla lance aguzze in magiche notti accese da mille fuochi celesti. New York rappresenterà per lei la vetrina sulla modernità e sul mondo esterno e moderno, indicherà all’artista quel modello di donna ormai emancipata che la affascina come spirito anticonformista e pittrice ribelle, ma che allo stesso tempo la respinge con lo stesso impulso forte e contrario, come donna messicana legata al ritmo ancora antico della sua terra.
A divorzio compiuto, nel 1939, Frida approda da sola nella “Ville Lumiere”. I grandi musei, la fervida vita notturna, i locali lussuosi, le bellissime cocottes e cabarettiste parigine esercitarono su di lei un’attrazione ancora più forte di quella provocata dal mondo statunitense accentuando nella pittrice l’emancipazione, il desiderio di libertà e la consapevolezza di donna e artista del XX secolo.
Il suo cuore fu sempre a ametà, lacerato dalla carica vitale incatenata ad un corpo straziato, ardente di passione per Diego e gonfio di dolore come donna tradita e madre negata, sincero e dolce, ma libero e indomabile.
In Le due Frida, dipinto tra il 1939 e il 1940, l’artista lascia forse l’opera più autentica, il vero specchio della sua doppia e inconciliabile natura. In accese tinte la Kalho siede a destra in abito tradizionale messicano, il suo cuore, rosso infuocato, palpita nel centro del suo petto. E’ vivo, alimentato da vene cariche di sangue caldo nascenti dal medaglione recante l’immagine dell’amato Diego. A sinistra, invece, la donna compare abbigliata all’europea, è una donna occidentale, che osserva l’interno del suo cuore, ora aperto, tagliato  a metà, mentre con la mano occlude la vena con una pinza emostatica.     
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Firda per metà messicana e per metà europea, per metà legata all’uomo al quale dedicò la sua vita da un amore totalizzante che le fece sopportare tradimenti e mortificazioni in modo irrazionale e tradizionale. Da un’altra ottica Frida appare invece come una donna logica e moderna, sofferente, ma determinata. Il suo cuore, ora aperto, è compreso ed esplorato dalla ragione che subentra all’esaurimento della cieca passione. Esasperata e consapevole, la pittrice blocca il flusso venoso tentando di sottrarsi a quell’amore che altrimenti la condurrebbe al competo dissanguamento;  interrompe il sentimento, sbarra la strada a quel sangue ardente che nella poetica di Kalho è un’unica amalgama di corpo e anima e che, gocciolando, le macchia il candido vestito. Donandoci una tale potente visione l’artista rappresenta così il suo eterno conflitto, alludendo al divorzio con Diego, indicando la sua insanabile solitudine.
Costretta a mesi d’immobilità da lunghissime degenze e all’amputazione di una gamba, Frida dipingerà sempre se stessa affermando nel suo diario: “…dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e perché sono il soggetto che conosco meglio”. Gli autoritratti di Kalho , oggi esposti nei più importanti musei del mondo, furono oggetto di interesse e di erronee letture da parte del padre teorico dell’avanguardia surrealista; Andrè Breton, convinto del potenziale surreale ed onirico delle tele che ammirò in casa della pittrice in Messico, riuscì a presentarle a Parigi, ma senza ottenere quel gradimento, vasto ed unanime, che aveva previsto. In realtà i dipinti di Frida sono tutt’altro che visioni di sogni, bensì la rappresentazione della realtà personale ed intima dell’artista chiusa nella sua stanza e nella sua sofferenza; sono immagini nate da una profonda ricerca introspettiva, psicologica, attuata attraverso la puntuale narrazione autobiografica ed il libero  accostamento di oggetti dell’affetto e della vita.
Da una realtà dipinta ed essenziale, quasi stilizzata, emerge un universo affettivo occulto che, ignorando i principi prospettici e l’attinenza alla visione reale, libera le immagini come visioni del cuore, tutt’altro che oniriche, ma specchio dell’anima e della vita.
Una suprema lezione d’amore e di sopportazione del dolore si eleva, nell’arte di Kalho, dalla sfera personale a quella globale raccontando il dramma esistenziale di ogni individuo. Forse mai, in tutta la storia dell’arte, il connubio tra pittura e vita fu così forte e universale.
                                                                                                              Mario Sordi
04
Set
07

Ukiyo-e

“UKIYO-E”

Da Honshu all’Europa l’estetica superiore del Sol Levante
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L’invasione culturale è ormai compiuta; il gusto e gli usi del Giappone hanno conquistato definitivamente i cuori dell’Occidente dilagando in Italia come un’onda raffinata ed irresistibilmente attraente. Pubblicazioni sulla storia, l’arte e i costumi del popolo del Sol Levante, film e ristoranti nipponici, negozi di abiti ed oggetti d’importazione, documentari, corsi di meditazione Zen e giardinaggio-ikebana, istituti giapponesi di cultura ed importanti esposizioni scandiscono ormai il tempo di molti italiani e sono quotidianamente presenti nella realtà urbana di ogni cittadino europeo,  rappresentando la vastissima diffusione e la sempre crescente accoglienza dell’estetica superiore dell’antico Impero del Sole Nascente. Dopo lo sfruttamento economico occidentale, dopo l’infinito fragore delle bombe atomiche e la vertiginosa espansione edilizia delle megalopoli di Tokyo e Osaka come alienanti Manhattan asiatiche, il Giappone prende ora la sua rivincita contro il ladro che gli ha rubato l’anima; nonostante contaminato e fortemente alterato, passato ormai al fianco degli dei del grande consumismo, il Giappone si riscatta e resiste ancora con tutta l’imponenza della sua antica cultura, unico ed ultimo vanto di un glorioso impero ormai decaduto.

La penetrazione del gusto nipponico in terra occidentale risale, in realtà, alla metà del XIX secolo quando manufatti giapponesi godettero di un vasto apprezzamento negli ambiti culturali inglese e francese. Il gruppo preraffaellita di Rossetti e Burne-Jones; il pittore Manet; il movimento impressionista; artisti isolati come Van Gogh, Toulouse-Lautrec e Gauguin; gli espressionisti del “Der Blaue Reiter” furono tra i più grandi estimatori e collezionisti di arte nipponica. Gli imponenti sistemi commerciali dei vastissimi imperi coloniali francese e britannico, quasi confinanti con la terra del Giappone, permettevano la continua affluenza in Europa di manufatti orientali di ogni sorta: ceramiche, porcellane, paraventi, abiti e soprattutto stampe. Presto non solo i pittori imitarono e rielaborarono soggetti tratti da opere giapponesi, ma nacquero mode d’abbigliamento, di arredo e addirittura locali notturni completamente ispirati all’imperante gusto nipponico, fenomeno culturale che assunse la denominazione di “Japonisme”, vera e propria epoca del Giappone all’europea.         

            I manufatti artistici che giungevano in Europa durante la seconda metà dell’Ottocento e del primo Novecento, rispecchiavano la fine di una lunga ed importante parabola storica dell’Impero del Sol Levante, quella del periodo Tokugawa. Dal 1600 il potere politico diretto era stato sottratto agli imperatori ereditari da parte dei capi del fortissimo esercito: gli Shogun. Con Ieyasu si inaugura il primo shogunato e inizia il lungo  tempo del coraggio e dell’onore: il tempo dei  samurai.

Nel 1867 Mutsushito Meniji riesce a rimpossessarsi del trono imperiale dando fine agli shogunati e quindi al fastoso periodo Tokugawa.

L’amore per l’ostentazione e la grandiosità, la costruzione di lussuosi palazzi dotati di complesse architetture, il grande sviluppo dell’arte del giardinaggio e la sistematica produzione di preziosi oggetti d’arredamento come paraventi dai colori sgargianti o pannelli decorati con foglie d’oro rappresentano il periodo più opulento della storia del Giappone, il grande “Barocco” Tokugawa.
Tra i magici boschi che coprono i Monti di Nikko si scorgono ancora le sagome degli splendidi templi-mausolei degli shogun che raccontano, oltre al fasto raffinatissimo di un’epoca, anche le idee e l’atteggiamento di un’intera classe dominante. 
Le dottrine neo-confuciane di Chu Hsi portarono nel Paese un forte senso della moralità dell’autorità politica e di conseguenza fecero scaturire una fedeltà cieca ed assoluta verso il Signore. Si fonde con ciò la rigida etica tradizionale della classe dei guerrieri, i samurai, che si identificavano in un codice morale chiamato Bushido, ovvero “la via del guerriero.”
Questa dottrina, severa e poco stimolante per la crescita delle arti, trovò nel pensiero del filosofo cinese Wang Yang-ming, morto nel 1529 e noto in Giappone come Oyomei, una corrente opposta che poneva l’accento su un atteggiamento più pragmatico ed anti-feudale, più attento ai problemi economici e alle potenzialità dell’intelletto e dell’azione umana. Il pieno senso morale dell’individuo si raggiungeva dunque in una perfetta fusione tra centralità del pensiero e indispensabilità dell’azione. Questo movimento sovversivo rovesciò i Tokugawa e dal 1720 già sono presenti molti fermenti sociali e un’influenza occidentale sempre più crescente dovuta alla revoca dell’editto che proibiva la circolazione di libri occidentali, mantenuto solo per i libri religiosi di contenuto cristiano, e alla presenza di molti mercanti olandesi nei più importanti porti del Paese.
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Mentre le principali scuole di pittura erano ancora sostenute dalla classe dirigente, nelle città stava sorgendo una nuova arte popolare chiamata Ukiyo-e o immagini del Mondo Fluttuante, un termine buddista che stava ad indicare la precarietà della vita umana e gli aspetti del quotidiano e dell’effimero.
Più precisamente la parola ukiyo scaturiva dalla fusione dei vocaboli “yo” e “uky”, rispettivamente significanti mondo e sofferenza. Ribaltati nel loro ordine ed utilizzati nel Seicento per indicare generalmente il concetto di sofferenza, vennero associati ed assorbiti al significato  “fluttuante” ad indicare tutti quei piaceri fuggevoli e quelle effimere passioni mondane dalle quali la saggezza e la moralità buddista da sempre aveva nettamente preso le distanze.        
I soggetti preferiti di questo nuovo linguaggio artistico erano infatti tratti dal mondo delle feste, della moda, dello spettacolo e dell’amore mercenario creando, così, un’immensa galleria di ritratti di attori famosi del teatro Kabuki, noti uomini di corte, donne di particolare bellezza, soggetti erotici e più tardi paesaggi, insomma un repertorio tratto dalla vita quotidiana e soprattutto dalle figure di spicco del momento contingente in una sorta di trionfo della vanità e della caducità dell’esistenza. Il mondo dell’Ukiyo-e è un mondo leggero e veloce, che indugia sui piaceri e gli svaghi della vita, che ama la moda e la sua continua mutevolezza; rappresenta una realtà di vita nuova, un mondo sull’orlo della modernità che esprime lusso, fama e bellezze che si fanno e disfano in un solo attimo.
L’Ukiyo-e è un mondo che fluttua, che vola e si disintegra per quanto è leggero, inconsistente e vano; è un mondo  dove non si ha più tempo per riflettere ed ascoltare, ma solo per vivere tutto, all’istante, subito, lasciandosi andare lungo la corrente di questo grande fiume dell’effimero che trapassa e scompare per rinascere e morire più bello di prima un solo attimo dopo. Questo Mondo fluttuante è il simbolo del Giappone pre-moderno a cavallo tra XVIII e XIX secolo e ancora oggi è possibile ritrovarlo, anche se in modi ancor più esasperati, nella frenetica vita dell’Omotesando di Tokyo, lungo le infinite strade americane o passeggiando tra il continuo umano fluire lungo Corso Como a Milano.
            I raggi del Sol Levante irruppero nel 1867 nei padiglioni dell’Esposizione Universale di Parigi, con l’insolita presentazione di oltre cento stampe dei maggiori maestri nipponici tra i quali spiccavano i nomi di Utamaro, Kuniyoshi, Harunobu, Hiroshige e Hokusai. Presto un continuo afflusso di artisti decretò la grande fortuna delle stampe giapponesi nella Francia che si apprestava allo sconvolgimento che avrebbe compiuto, sette anni più tardi, la prima mostra di pittura impressionista. 
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Minacciosi samurai, volti dipinti di attori, raffinate silhouette di geishe ed animali, aprirono enormi brecce nei cuori di molti artisti europei. McNeill Whistler, Edgar Degas, Toulouse Lautrec, Gauguin e Vincent Van Gogh furono tra gli artisti che subirono maggiormente l’influenza dell’arte dell’estremo oriente e in virtù del prezzo ragionevole al quale venivano vendute le stampe ne acquistarono molte al punto che Vincent Van Gogh ne possedeva un numero tale da costituire una vasta collezione personale addirittura esposta in seguito, per sua volontà, in un caffè-ristorante.
Colpì questi artisti soprattutto l’eccezionale capacità dei pittori giapponesi di creare, costruire immagini attraverso il solo rapporto tra masse di colore mediante campiture piatte e bidimensionali accostate l’una al fianco dell’altra. Queste opere d’arte nipponiche non erano dei veri quadri, ovvero delle pitture dirette su tavola o su tela; si trattava in realtà di stampe, ovvero di opere grafiche prodotte attraverso un procedimento tecnico di stampa di una matrice su un foglio di carta. Tutte le immagini dell’Ukiyo-e sono tratte da stampe xilografiche, ovvero delle impressioni tratte da disegni intagliati in tavolette di legno di filo, in modo tale che le figure risultino non incise in profondità nella tavola, ma come liberate da essa, in positivo, intagliate lungo i contorni. Una volta terminato il lungo e faticoso lavoro d’intaglio, la matrice è pronta a ricevere l’inchiostro. L’eccezionale qualità delle xilografie giapponesi è data dalla precisione dell’incisione, dall’uso magistrale degli inchiostri policromi in cui la china è diluita con acqua e pigmento colorato, nella morbida inchiostratura operata col pennello assieme a qualche goccia di colla d’amido di riso. E’ un grande lavoro di antica sapienza artigianale che tocca il suo apice nella pressione manuale dei fogli sulla matrice, senza l’ausilio di torchi, e nelle vibranti sfumature e incorporee acquerellature date agli altissimi cieli tesi sulla scintillante Edo e alle tenere peonie. Le matrici delle stampe nipponiche sono tante quanti i colori da stampare e il risultato finale è il frutto di un lungo e vario procedimento di impressione manuale che prolunga di molto i tempi di esecuzione, ma giunge a livelli di perfezione mai raggiunti in altra parte del mondo.
            Stampe che avevano la funzione di veri e propri manifesti pubblicitari con i ritratti degli attori più famosi del teatro kabuki, veicolo primario della cultura dell’Ukiyo-e. Volti volitivi perfettamente truccati e scene tradizionali della letteratura e della religione sono reinterpretati secondo la moda ridondante ed effimera del mondo fluttuante.
                Animali e grasse peonie, cascate, rocce e fiumi, raccontano l’intima natura divina data dalla religione nazionale a tutte le manifestazioni della naturale. Questo connotato sovrumano conferiva grande dignità ai soggetti animali e vegetali che vennero, dunque, largamente utilizzati come soggetti principali di opere d’arte e non per scopi puramente decorativi. Un grande amore per la natura ha sempre caratterizzato la cultura giapponese che tratta alberi ed uccelli come emanazione del divino concretizzatasi in elegantissime forme.          
           Le magnifiche vedute dell’antica capitale, Edo, l’attuale Tokyo, che Hokusai seppe così ben illustrare in una raccolta dedicata proprio a tutti i luoghi più frequentati, ai monumenti maggiori e alle opportunità di svago che la ricca Edo offriva senza soluzione di continuità ad ogni suo cittadino e visitatore. Lungo le affollate strade della capitale, tra il dedalo dei vicoli attorno ad ogni porto, la bellezza femminile era di facile incontro e sempre perfettamente potenziata e sublimata da costosi trucchi e sontuose acconciature. Cortigiane, attraenti e raffinatissime, ispiravano i pittori fino a condurli a scegliere un genere apertamente erotico, dove l’apparato decorativo di ogni geisha si tramutava in indispensabile strumento di un elegante rituale amoroso.
            L’Ukiyo-e rappresenta ancora oggi una delle prime forme di arte di massa, grazie soprattutto all’uso della stampa che, annullando l’unicità dell’opera d’arte, ha permesso una produzione artistica di vasta divulgazione e molto acquistata, di medio costo e di facilmente fruibile contenuto, ma sempre impeccabile nella forma e geniale nelle nuove e diverse trovate compositive.
                                                                                                             Mario Sordi
04
Set
07

“GIOCHI DI PENSIERO”

Golconde, 1953

“GIOCHI DI PENSIERO”

Magritte e le “surreali” combinazioni

Cielo piatto e tetti di Bruxelles. Oggi piovono uomini come gocce in trench e bombetta. E’ un’invasione, forse un’ascensione oppure una corale caduta. Tutto è muto, probabilmente le bombette sono immobili a mezz’aria…Forse quei borghesi uguali ruotano, oppure ascoltano i pensieri o si allontanano per sempre nel mattino grigio del 1953.

Creando nei corridoi del pensiero questa composizione assurda, il belga René Magritte annulla completamente il rapporto di tradizionale fiducia tra l’osservatore e la realtà della cose. In “Golconde”, infatti, ogni ricerca di realistico equilibrio è vana; eppure gli uomini sono riprodotti esattamente e le case sullo sfondo sono precisamente attinenti alla realtà, nessuna forma si allontana dal quotidiano e dal convenzionalmente riconoscibile e l’opera sembra di facile comprensione. Tuttavia al cospetto di quest’immagine scatta in noi un allarme, un’improvvisa confusione, una profonda insicurezza di giudizio e di significato.

Tutto è pedantemente reale e quotidiano, ma quegli uomini volano? Si, dovrebbero volare! Oppure scendono dall’alto o chissà perché sono in aria! Ecco scattare la trappola di Magritte, ecco tendersi l’illogica rete in cui l’artista cattura i suoi spettatori con un doppio inganno.           

              A colpo d’occhio quella di Magritte è una pittura facile, netta, addirittura scolastica, dove tutto è concreto e perfettamente combaciante con il reale. In essa  nulla ci turba, poiché ogni cosa è perfettamente riconoscibile in una sorta di pedante iper-realtà. L’illusione di Magritte è compiuta, armato di solo pennello è riuscito ad anestetizzare il nostro istinto, a far prevalere sulla visione il banale buon senso. Eppure gli uomini dipinti da Magritte non sono veri uomini e neanche gli stabili sullo sfondo sono realmente abitabili. E’ lo stesso artista che risveglia le nostre profonde intuizioni scrivendoci in faccia “ceci n’est pas une pipe” sotto l’immagine di una pipa da lui dipinta. Nonostante ogni sforzo con quella pipa non sarà mai possibile fumare, essa non potrà mai allietarci in una molle serata domestica, eppure ogni spettatore rimane sbalordito da tale assurdo annuncio; il pensiero ha usurpato il trono alla pittura. Il fatto è che Magritte gioca con le cose e le parole per liberarle dalle relazioni tradizionali che ne vincolano e mortificano il potenziale espressivo.

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L’oggetto reale non ha nulla a che fare con la sua rappresentazione, lo spazio pittorico non va confuso con la parete di casa e le parole non sono gli oggetti, poiché essi vivono senza le parole, sono autonomi e concreti solo dietro le loro convenzionali, rigide denominazioni. La pipa, gli omini in bombetta, le case, le cose, possono prendere allora vita propria in una realtà puramente superiore, mentale, a volte onirica in cui il giocare è l’unica seria attività. Una dimensione, nata sulla scia di De Chirico, in cui tutto appare tranquillo, ma in realtà ogni cosa è sconvolta. Nel gioco di Magritte tutto è possibile; uomini e rocce sono da sempre abituati a fluttuare nel cielo, donne-pesce e mele mascherate popolano la terra e statue sanguinanti sono il banale quotidiano.          

  Dopo lo sconcertante gesto di Marcel Duchamp, che sull’onda nichilista del “Dada” pose sui piedistalli orinatoi, scolabottiglie e ruote di biciclette come opere d’arte con tanto di firma, Magritte completa questa parabola chiudendo con soluzioni del tutto opposte. Se Duchamp rende opere d’arte oggetti veri, già fatti, strappandoli dal loro contesto quotidiano, Magritte ancora una volta supera l’ostacolo con un inganno, l’ennesima illusione. Nelle sue opere gli oggetti sono tratti dalla realtà, ma non sono la realtà, bensì sono un puro pensiero, l’essenza di uno stato mentale.  Il vero Magritte è un pensatore assoluto, un sognatore, un diabolico creatore di enigmistica travestito da pittore. La grande passione per il gioco degli scacchi, la nausea per la banalità quotidiana e i Salons, la prematura morte della madre, l’abilità nei giochi di parole, l’indole introversa, convogliano tutte nell’opera di Magritte e creano una vastissima galleria di immagini aperte come finestre direttamente sul pensiero, una mostra di puri concetti, come una sorta di occidentale e disilluso terzo occhio; è l’addio al banale, l’ultima boccaccia contro la società, la prima pietra di una nuova e libera creatività di spirito, l’ultima provocazione.  Nascono così opere dall’umore nero, inquietanti e irrisolvibili come “Scacco Matto”, del 1937, dove lo scontro tra pedine da origine ad un vero e sanguinoso delitto; “Gli amanti”, del 1928, dove i volti velati rimandano, molto probabilmente, al trauma subito dall’artista quattordicenne in seguito alla visione della madre suicida annegata nel fiume Sambre e rinvenuta con la camicia da notte avvolta attorno al capo.    Magritte, uno dei più geniali esponenti dell’avanguardia surrealista, alla quale aderì nel 1925 dopo un periodo iniziale di accostamento al cubismo e al futurismo, dedicò tutta la sua vita alla ricerca di enigmi figurativi, al serio gioco degli scambi, alla creazione di veri rebus trasformati in opere d’arte dove la chiave della corretta decifrazione è stata gettata in un mare sorvolato da meteoriti o forse non è stata mai forgiata dalla fucina della ragione.                                                                                                                      Mario Sordi




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